giovedì 6 gennaio 2022

Guido Rossa, l'alpinista che scese tra gli uomini

La vicenda umana di Guido Rossa si può riassumere così. Cresce a Torino in una famiglia operaia immigrata dal Bellunese, entra in fabbrica a 15 anni, poi in Fiat a Mirafiori. Si dedica all’alpinismo raggiungendo subito livelli di difficoltà estremi. Si trasferisce a Genova dopo il matrimonio ed entra in Italsider come operaio specializzato. Interessato a temi civili e sociali diventa delegato sindacale della Fiom-Cgil. Denuncia l’infiltrazione delle Brigata Rosse in fabbrica e un commando brigatista lo uccide prima dell’alba del 24 gennaio 1979. Ai suoi funerali in piazza partecipano duecentocinquantamila persone, c’è il Presidente Sandro Pertini, ci sono Enrico Berlinguer e Luciano Lama. L’assassinio di Guido Rossa rappresenta un punto di svolta nella lotta contro il terrorismo. I rivoluzionari comunisti hanno ucciso l’operaio comunista: da quel momento le Brigate Rosse perderanno il consenso della classe operaia; nemmeno la zona grigia di equidistanza rappresentata dallo slogan “né con lo Stato, né con le Br” è più praticabile. Comincerà così il declino della parabola brigatista.
Mi dispiace aver sintetizzato così brevemente la vita di Rossa perché ci sarebbero tantissimi aspetti da analizzare più in dettaglio. Ci viene in aiuto un bel libro di Sergio Luzzatto, storico, genovese di nascita e professore a Torino, dal titolo “Giù in mezzo agli uomini – Vita e morte di Guido Rossa” pubblicato recentemente da Einaudi.
Molto si è detto e scritto su questo alpinista e Accademico del CAI, sindacalista e martire del terrorismo. Luzzatto, che per primo ha avuto accesso agli archivi privati di casa Rossa, ricostruisce il quadro di una personalità complessa, coraggiosa e irriverente, attraverso i quarantaquattro anni della sua vita. Il ritratto che ne viene fuori indaga tra le numerose contraddizioni dell’uomo e prova a chiarire il percorso che lo porta dai vertici dell’alpinismo all’impegno civile portato avanti fino alle estreme conseguenze. Il lavoro di Luzzatto sviscera quel momento decisivo in cui Rossa è spinto a una nuova interpretazione del “fare qualcosa”: se aveva vissuto la montagna come una liberazione personale il suo impegno civile era volto a una liberazione collettiva. 
Fu un processo lento e intermittente, tutt’altro che lineare. Molto aveva pesato l’esperienza di una spedizione alpinistica in Nepal dove Rossa era rimasto vivamente colpito dalla «tremenda fame dell’Asia» più che dalle vertiginose pareti ghiacciate. La traccia scritta di questa svolta è la nota lettera inviata all’amico Ottavio Bastrenta, notaio valdostano, in cui Rossa parla dell’«inutilità ultima dell’andar sui sassi». Questo tema sarà ripreso da Gian Piero Motti nel suo articolo “I falliti” pubblicato sulla Rivista del CAI nel settembre 1972 dove scrive: «Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa il quale […] mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini». (entrambi i documenti sono disponibili in biblioteca). Rossa non lasciò comunque mai del tutto la pratica dell’alpinismo e ciò gli permise di frequentare la Genova dell’alta borghesia, tramite le sue amicizie consolidate in montagna. Così Rossa, appassionato fotografo, fu invitato nei salotti buoni a presentare le sue foto di denuncia sociale, non senza qualche stridore. 
Il libro di Luzzatto accompagna la figura di Rossa attraverso la storia d’Italia, dagli anni del fascismo, allo sviluppo industriale del dopoguerra, alle lotte sindacali degli anni ’60 e ’70 ma è l’alpinista-sindacalista a interpretarla con i tratti distintivi del suo carattere, non ultimo il suo coraggio. Si rende conto che il «gusto del rischio era senza scopo e poteva sfociare nell’arditismo fine a se stesso. E ho capito che ci vuole più fegato a essere coerenti tutti i giorni». 
La figura di Rossa è difficile da circoscrivere e il libro di Luzzatto fornisce moltissimi indizi per inquadrarla. Mi piace però concludere come ha fatto Enrico Camanni in un suo scritto: «Ho incontrato molti alpinisti anarchici e sognatori, ma pochissimi hanno saputo dare un corpo ai sogni. Guido l’ha fatto».

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