mercoledì 23 novembre 2022

L'Alpe Madre

 Questa recensione è stata curata da Federico Mingarelli.

Lo chiamavano Alpe Madre è un bel romanzo di Loris Giuriatti, padovano, trasferitosi a Bassano del Grappa dove insegna e lavora come responsabile di un centro di formazione professionale. Nel tempo libero si occupa alla promozione del Monte Grappa, sua grande passione, accompagnando i visitatori sui percorsi della Grande Guerra.
È un libro che racconta il Grappa. La narrazione procede su due canali, quello storico che riguarda il conflitto mondiale, partendo dall’attentato di Sarajevo all’arciduca Francesco Ferdinando, mettendo in evidenza i lati oscuri della vicenda; una seconda anima che vive invece nel presente, con i protagonisti che hanno gli stessi nomi reali delle persone che vivono nel territorio, come anche le malghe e i rifugi.
È autunno inoltrato e sul Grappa la stagione dei turisti va scemando quando si presenta nel rifugio gestito da Angelo e Carlotta un tipo vestito con felpa, bermuda e sandali, non proprio l’abbigliamento adatto per salire in montagna. Si chiama Joshua, è austriaco e porta con sé una sacca contenente tre oggetti: un documento con il sigillo asburgico, la foto della Madonnina del Grappa e un acquarello con una frase strana.
Angelo si fa subito coinvolgere insieme ad altri suoi amici malgari e recuperanti.
Inizia così una ricerca per individuare altri dipinti sparsi tra le varie baite che li porterà ad una vicenda avvenuta cento anni prima tra il Grappa e Vienna. La storia di un grande amore contrastato e altre micro storie dei vari protagonisti del periodo bellico e quello attuale. La storia d’amore tra Eugen Rubin, cameriere personale di Francesco Giuseppe e l’italiana Sara Musec è davvero bella e toccante.
Sapranno far luce sul grande mistero che risale alla prima guerra mondiale?
La lettura è coinvolgente e alla fine viene da chiedersi se si tratti di una storia vera...
 

domenica 23 ottobre 2022

Artisti in viaggio nell'Appennino Centrale

Viaggiare significa cercare nella terra miniere d’oro che nessuno ha scavato, nell’aria meraviglie che nessuno ha visto. Così diceva Alexandre Dumas, il celebre scrittore francese che viaggiò spesso anche in Italia lasciandone testimonianza nelle sue memorie. 
La capacità dell’artista è proprio quella di saper cogliere una caratteristica, un aspetto particolare, un punto di vista originale che rende immortale una scena, un’immagine che ad altri potrebbe sembrare usuale. Una meraviglia che nessuno ha visto. Il grande fotografo Henry Cartier-Bresson sosteneva di Osservare lì, dove gli altri sanno solo vedere
Conosciamo abbastanza bene le montagne tra Lazio e Abruzzo ma, anche se ci siamo stati spesso, quando ci ritorniamo riusciamo talvolta a cogliere una sensazione che in precedenza ci era sfuggita. L’occhio dell’artista ha la capacità di catturare al volo quell’aspetto saliente che caratterizza un panorama, un paese, una comunità montana. 

Cristina Ternovec, che qualcuno di noi ha già avuto modo di conoscere, è andata alla ricerca delle testimonianze lasciate da artisti che hanno viaggiato attraverso l’Appennino centrale tra ‘800 e ‘900: il frutto del suo lavoro è raccolto in un libro dal titolo Il cielo di cobalto, le foreste di ametista, fresco di stampa per le Edizioni del Gran Sasso. È una piccola antologia di scritti e dipinti ad opera di artisti - scrittori, pittori o musicisti che siano - che hanno profondamente amato le nostre montagne, restandone a volte soggiogati. Molti di essi sono stranieri, ammaliati dalla luce e dai colori mediterranei e da una terra che appare isolata, ben lontana dalle rotte del Grand Tour. Annie MacDonell si muove, sulle orme di precedenti viaggiatori inglesi, attraverso l’Abruzzo trovandolo una terra singolare, poco lontana da Roma, ma incalcolabilmente remota. Charles Moulin, pittore francese di cui abbiamo già parlato, resta stregato dal versante molisano delle Mainarde fino a restarvi a dipingere per tutta la vita. Kristian Zahrtmann, torna ogni anno a Civita d’Antino, in Valroveto, dove ha fondato una scuola di pittori danesi. Insieme ai récit de voyage di Dumas e le fotografie di Cartier-Bresson, queste sono soltanto alcune delle storie narrate nel libro. Storie che acquistano valore per la caratura dei loro autori ma anche perché ci restituiscono le descrizioni di un Appennino tanto cambiato negli anni. 
La lettura mi ha ispirato curiosità e mi ha spinto a cercare approfondimenti, anche se per ora solo in rete. Grazie alle riproduzioni di molti quadri seppure in formato ridotto, si prova il desiderio di vedere gli originali dal vero.
A chi fosse interessato a ripercorrere strade e sentieri già calcati da questi artisti, il libro propone due appendici: la prima descrive alcune escursioni per rileggere con occhi diversi itinerari conosciuti; la seconda propone viaggi in treno sulle lentissime linee abruzzesi in modo da rivivere i tempi e le percezioni dei viaggiatori del passato.

lunedì 19 settembre 2022

Lui, lei e la montagna

Jean-Christophe Rufin è medico, viaggiatore e diplomatico ma ha anche alcuni libri al suo attivo. Rivela ora anche una buona pratica di montagna con un romanzo ambientato tra gli scenari più impressionanti del monte Bianco.
La vicenda narrata in Fiamme di pietra è preceduta da un prologo: di ritorno da una salita all’Aiguille de la République, lungo la discesa verso Chamonix, l’autore viene folgorato da un incontro. La sua guida gli rivela che l’uomo in cui si sono imbattuti è un suo collega che serba in sé una storia particolare: non è una storia di montagna, lui è un ottimo professionista ma non è un alpinista di punta. È una storia d’amore. Il nostro autore ne è ancora più intrigato e inizia a raccontarla.
L’inizio sembra tra i più scontati: lui, la guida, è bello e donnaiolo; lei, la cliente, è bella, affascinante e misteriosa; quando escono insieme le cose vanno a meraviglia, il sole splende e l’Alta Savoia mostra in piena luce le sue bellezze. Però lui si innamora e le cose si complicano. Ora appaiono tutti gli inevitabili attriti tra due mondi troppo lontani, tra il montanaro e la donna d’affari parigina: le luminose giornate in montagna appaiono relegate a una breve parentesi vacanziera. Il racconto procede illuminando di una luce troppo vivida i sentimenti dei due protagonisti con qualche svolta prevedibile e la fotografia risulta un po’ sovraesposta. Poi, però, le ombre si addensano andando a riempire le pieghe della storia e il finale risulta decisamente più accattivante.
Il racconto prende comunque il lettore e svela il mondo della montagna anche sul retro della cartolina, quel solco profondo tra montanari e cittadini al di fuori dei beati giorni di vacanza. Le descrizioni del maestoso ambiente del monte Bianco, accurate e emozionanti, rivelano l’ottima conoscenza che ne ha l’autore.

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domenica 11 settembre 2022

La stanza delle mele di Matteo Righetto

Matteo Righetto è un autore di montagna abbastanza conosciuto, alcuni di noi hanno letto e apprezzato i suoi precedenti romanzi: in biblioteca abbiamo La pelle dell’orso e L’anima della frontiera e, in collaborazione con Mauro Corona, Il passo del ventoIl suo ultimo romanzo, uscito quest’anno, è La stanza delle mele. Me ne ha parlato Rita, a cui è molto piaciuto. Lascio la parola a Federico, anche lui molto conquistato da questo libro:

Sono stato in vacanza a Caprile (Alleghe) lo scorso agosto. La scelta della località solitamente non è casuale e questa volta ho sentito il bisogno di rendere omaggio alla memoria di un mio bisnonno morto nella Grande Guerra in uno dei tanti sanguinosi e inutili assalti frontali verso le posizioni austro-ungariche alla cima del Col di Lana e del Sief.
Caprile si trova nelle vicinanze di Livinallongo, nella cui frazione di Pian dei Salesei c’è il Sacrario dove probabilmente è sepolto, tra i 4.700 ignoti, il soldato Viannesi Antonio.
Mentre passeggiavo, in un dopocena, nel centro di Alleghe sono entrato in una libreria e ho notato, tra i libri esposti, una bella copertina che ha attirato la mia attenzione. Il titolo è La stanza delle mele di Matteo Righetto.
Scambiando qualche parola con il libraio sono venuto a sapere che l’autore trascorre gran parte dell’anno a Colle Santa Lucia, nella bellissima Val Fiorentina e la storia in questione è ambientata proprio nei luoghi che mi trovavo a frequentare nel periodo, troppo breve, di vacanze.
È la storia di Giacomo, bambino rimasto orfano di tutt’e due i genitori, il papà morto in guerra e la mamma di tifo. Giacomo vive con i due fratelli maggiori insieme ai nonni a Daghè, una frazione di Livinallongo appena sotto il Col di Lana (proprio da qui parte uno dei sentieri che conduce alla vetta del Col di lana e a seguire del Sief).
L’infanzia di Giacomo è molto difficile: il nonno è un uomo duro che sembra non avere pietà soprattutto con il più piccolo dei nipoti; lo chiama bastardo nella convinzione che sia il frutto di un tradimento della nuora nei confronti di suo figlio e continua ad imporgli ordini e compiti da svolgere durante tutto il giorno.
Giacomo viene spesso punito e relegato nel fienile, nella cosiddetta stanza delle mele dove impara a intagliare il legno. Un giorno il nonno lo manda nel bosco per recuperare una roncola dimenticata lì. A questo punto c’è una sorpresa scioccante: davanti a sé vede la spaventosa figura di un uomo impiccato ad un albero. Non ne parla con nessuno dei familiari, tantomeno con il nonno, ma solo ai suoi amici.
Dopo la morte dei nonni, avvenuta a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra, i tre ragazzi rimasti soli vengono mandati a studiare in luoghi diversi. Giacomo troverà successivamente il modo di coltivare la sua passione per la scultura del legno. Adulto diventerà un artista affermato e sta per presentare una nuova opera per la prima volta nel suo paese di Pieve di Livinallongo dove è cresciuto ma in cui non è più tornato da tanti anni.
Riuscirà in quest’occasione a svelare il mistero dell’impiccato che lo ha angosciato per tutta la vita.
Si potrebbe definire il romanzo come un Noir montano. Belle le descrizioni dei luoghi che naturalmente l’autore conosce molto bene, con i riferimenti al mondo antico della montagna, alle leggende e credenze popolari. Insomma una lettura appassionante.

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venerdì 26 agosto 2022

Ecoansia, gli effetti psicologici del cambiamento climatico

L’estate che sta finendo è stata caratterizzata da eventi meteorologici molto preoccupanti, se non addirittura drammatici: la prolungata siccità, lunghi periodi di caldo oltre la norma con la conseguenza di incendi e vere e proprie tempeste. Ora non si può più pensare ai cambiamenti climatici come a eventi lontani nello spazio (ad esempio lo scioglimento dei ghiacci artici) o nel tempo (criticità che si manifesteranno fra decenni). E l’ambiente montano non è certo indenne da questi mutamenti, anzi ne subisce un impatto violento: basti pensare al crollo del ghiacciaio della Marmolada e alla chiusura della via francese al monte Bianco per analoghi rischi; quest’anno, per la prima volta, tutte le stazioni alpine dello sci estivo sono rimaste chiuse per mancanza di neve. Il danno che ne consegue è ambientale, di immagine, economico e, non ultimo, psicologico. Dice Gustav Thöni, indimenticato campione di sci: «Provo paura e rabbia ma prima ancora tristezza. Il mondo bianco che ho conosciuto da bambino scompare sotto i miei occhi […] rinascessi oggi la mia vita sarebbe peggiore e probabilmente non riuscirei più a vivere qui».
Vittorio Lingiardi, psichiatra, rileva come «il clima […] chiede la nostra attenzione. Vuole farci capire che l’equilibrio si è rotto. Un equilibrio che è anche tra psiche e natura.»; teme che «dopo il Covid pagheremo un prezzo psicologico alto anche al cambiamento climatico». L’articolo completo è disponibile qui ma è un contenuto a pagamento.

L’impatto del riscaldamento globale sulla sfera della salute, fisica ma soprattutto psicologica, è l’argomento di Ecoansia, di Matteo Innocenti, libro edito da Erickson (se ne parla sul numero di giugno di Montagne360, a pagina 5). L’autore, psichiatra anch’esso, si propone di trattare le conseguenze psicologiche dei cambiamenti climatici e le strategie personali atte a fronteggiarle; un ultimo capitolo tratta di tecniche specifiche, praticabili soltanto da addetti del settore. La lettura richiede concentrazione ma è piuttosto scorrevole, grazie anche ai numerosi esempi comprensibili a tutti: soltanto l’ultimo capitolo richiede un background professionale per una comprensione esauriente.
Il libro rileva come i cambiamenti climatici inducano effetti ansiogeni su una parte crescente di popolazione, soprattutto sui giovani che si vedono più vulnerabili alle mutazioni dell'ambiente in un prossimo futuro. Gli impatti sono di tipo diretto sui soggetti esposti in prima persona a fenomeni climatici estremi; non bisogna tuttavia trascurare gli effetti indiretti, dovuti a una divulgazione a carattere pessimistico e catastrofico. E qui il libro sottolinea l’importanza di una corretta comunicazione da parte dei media.
Il volume di Matteo Innocenti esamina poi gli effetti negativi sull’individuo e sulla collettività usando una serie di necessari neologismi: ecoansia, l’affanno per qualcosa di terribile che può accadere senza possibilità di controllo; solastalgia, la sofferenza che si prova per un ambiente naturale che va scomparendo; terrafurie, rabbia per le istituzioni cieche ai bisogni ambientali, fino all’ecoparalisi, quando si pensa che non ci sia più niente da fare e si abbandona qualsiasi comportamento pro-ambiente. Allora è più che mai necessario invertire questa tendenza e indurre nel singolo, così come nella collettività, emozioni positive come biofilia, cioè affiliazione alla natura, endemofilia, amore per il luogo natale, sumbofilia, amore per la cooperazione tra uomo e natura.
Il libro richiama anche il pensiero di Glenn Albrecht, filosofo, che spiega la necessità di virare dall’era dell’Antropocene, dove tutto ruota attorno all’attività umana, all’era del Simbiocene, caratterizzata dalla coesistenza simbiotica della vita umana con ogni altra forma di vita organica e l'ambiente ospitante.
Alla fine della lettura si percepisce bene quanto contribuire alla salvezza del pianeta è compito di tutti e la strada sarà indicata, oltre che dagli scienziati, anche da filosofi e psichiatri

mercoledì 27 luglio 2022

Manuale di escursionismo (non soltanto) per ragazzi

Il Manuale per giovani stambecchi di Irene Borgna è edito da Salani nella collana I Caprioli: i libri di questa collana sono pensati per i ragazzi e pubblicati sotto l’egida del CAI.
La scrittura di questo manuale è semplice e diretta, arricchita da belle illustrazioni, perfetta per parlare ai più giovani ma gli argomenti sono trattati in maniera tutt’altro che banale o semplicistica. Il risultato è un testo che copre tutti gli aspetti da conoscere per affrontare la montagna: la preparazione, l’equipaggiamento, l’orientamento e la lettura delle carte, senza trascurare però le nozioni fondamentali per saper interpretare l’ambiente e le regole base per saperlo rispettare. Un libro destinato ai ragazzi ma utile a tanti adulti, se non proprio a tutti.
 
Vi riporto le impressioni di lettura di Emilia Vona, la ragazza che presta il servizio civile presso la nostra associazione, che ha letto il testo con l’occhio del neofita e che ringrazio per la collaborazione.

Sul filo di un tono amichevole ed esperto, il testo è un’organizzata raccolta di dritte sul tema dell’escursionismo, attraverso un dialogo con il giovane lettore che non si circoscrive a delle informazioni puramente tecniche, ma si snoda in un coinvolgimento empatico e a tratti ironico su vari e interessanti aspetti conoscitivi dell’argomento.
Con l’aggiunta di “segreti” aneddoti personali dell’autrice, quest’ultima fornisce un curioso e chiaro strumento di esperienza, insieme ad una necessaria consapevolezza sul tema della sostenibilità ambientale e al rispetto di norme etiche il cui insegnamento e promemoria deve costantemente essere rivolto non solo ai più piccoli, ma anche agli adulti.
Nell’assumere familiarità con il libro, ci si accorge che può essere consultato anche secondo un metodo enciclopedico, non essendo necessario attenersi a una narrazione cronologica e spaziare così tra i vari titoli dei capitoli e paragrafi stando alla curiosità del momento.
Dalla scelta dell’equipaggiamento, alla conoscenza di codici naturali necessari ad orientarsi e ad apprezzare e godere dell’esperienza in sicurezza, le illustrazioni in scala di grigi vengono incontro al lettore in uno stile che richiama quelle di un taccuino da viaggio, accompagnate da note e promemoria, offrendo spunti creativi per archiviare le nostre personali avventure.
Informazioni, concetti e dizioni traspaiono mediante un filtro, che desta e consolida delle consapevolezze sull’impatto che il nostro desiderio di esplorazione può avere nei luoghi del nostro passaggio. Educa, altresì, all’esercizio di una sensibilità nel lasciare meno tracce possibili senza alterare, o facendolo nella minore misura possibile, l’equilibrio del nostro prezioso ecosistema.

lunedì 27 giugno 2022

Lontano dalla vetta

 

“Passi” è la collana di narrativa edita dal CAI, in collaborazione con Ponte alle GrazieTitolo recentissimo di questa collana è Lontano dalla vetta di Caterina Soffici.
Per un motivo a cui si fa soltanto un vago accenno, l’autrice, che ama il mare e si trova a suo agio in acqua, viene catapultata in una baita ai piedi del Monte Rosa, dove vivrà per un anno. Non è sola, con lei c’è la sua famiglia: suo marito, ben più a suo agio sui sentieri di montagna, e i loro due figli che sembra facciano maggior riferimento alle orme paterne. Il racconto si dipana attraverso le quattro stagioni senza seguire, però, la scansione temporale come in un diario: è piuttosto la narrazione delle impressioni suscitate da questa esperienza e dagli incontri di una cittadina con i valligiani.
La scrittura di Caterina Soffici è lieve e coinvolgente e la lettura scorre rapida e affascinante. L’autrice resta lontano dalla vetta, come recita il titolo del libro, ma il suo camminare, spesso da sola e talvolta sulle orme del marito, la conducono a incontri stimolanti e a riflessioni sul rapporto tra uomo e natura e tra turisti e valligiani. Ne esce un quadro di montagna autentico, con le sue dolcezze e i momenti di trasporto emotivo senza dimenticare le inevitabili ruvidità: un quadro che sembra raccontarci la decrescita felice dell’alpinismo, nessuna corsa per raggiungere una cima ma la ricerca di una sintonia con sé stessi e l’ambiente che ci circonda.
L’io narrante si riconosce come un ibrido: non è, non è più come in passato, un turista che fa un uso ludico della montagna nei fine settimana o in vacanza ma non è nemmeno un valligiano che vive la montagna. L’autrice appartiene a una nuova categoria, quella dei lavoratori a distanza che vivono in montagna ma non vivono della montagna: però ha tutta la sensibilità necessaria per avvicinare e comprendere i nativi, quelli che resteranno in paese anche quando lei tornerà, con qualche nostalgia, alla vita cittadina.
Resta la sua testimonianza a raccontare gli inevitabili screzi con i valligiani ma anche i momenti di solidarietà, le difficoltà di un ambiente a volte ostile e i momenti di autentico trasporto emotivo, la scoperta di diversi paradigmi di vita e il riaffiorare di paure ancestrali generate dalla severità della montagna.
Le pagine scorrono veloci e, alla fine, si ha l’impressione di aver capito qualcosa in più della montagna.
 

domenica 10 aprile 2022

Giovanni Segantini, il cercatore di luce

Il cercatore di luce è il titolo di un bel romanzo di Carmine Abate, pubblicato da Mondadori. Due storie si intrecciano, a distanza di un secolo: il legame, tra questi eventi così lontani nel tempo, è un quadro che Giovanni Segantini, il celebre pittore delle Alpi, avrebbe regalato al nonno dell’io narrante. Quest’ultimo è ancora adolescente quando sale nella baita di famiglia, sulle montagne del Trentino: qui scopre un dipinto che rappresenta una donna, con gli occhi chiusi, appoggiata sotto un albero, con in braccio il suo bambino. Ne resta affascinato. Attraverso i racconti della nonna, il ragazzo risalirà alle vicende umane e artistiche di Giovanni Segantini che gli sembreranno, in qualche modo intimamente collegate a quelle della sua famiglia, nei momenti di incanto davanti alla meraviglia della natura alpina come in quelli drammatici.
Nato da famiglia poverissima, Segantini visse una infanzia infelice a causa della morte prematura della madre; praticamente analfabeta, la sua vita cambiò grazie al suo innato talento e all’incontro con Bice Bugatti, di agiata famiglia milanese, eterno amore della sua vita. La coppia peregrinò fino a stabilirsi in val Bregaglia e a Maloja. Fu qui, a contatto con la straordinaria bellezza della natura alpina, che il pittore realizzò i suoi capolavori. I suoi quadri rappresentano, attraverso i paesaggi montani, i temi fondamentali della vita umana: la vita e la morte, la natura, l’amore.
Alternando le descrizioni della malga trentina e dello splendore dell’Engadina, delle vicende della famiglia Segantini e della famiglia dei giorni nostri attraverso tre generazioni, la narrazione ci porta fino al finale, dolcemente triste.
Oltre il piacere della lettura, per me il libro è stata una rivelazione che mi ha condotto a interpretare i quadri di Segantini che ho visto, purtroppo, soltanto nelle riproduzioni: ne ho apprezzato così la ricerca della luce delle montagne e l’immensità del cielo.
 

domenica 3 aprile 2022

Un appassionante giallo di montagna

La nostra biblioteca ha acquisito un nuovo libro, Delitti alle Traversette di Nicolas Crunchant.
Arturo che lo ha letto ne consiglia la lettura, soprattutto agli appassionati del giallo di montagna.

I gialli di ambiente montano sono tra le mie letture preferite. Quando ho notato nella pagina della Rivista dedicata ai libri questo nuovo romanzo di un autore francese l’ho subito segnalato a Piero per aggiungerlo alla già nutrita collezione di thriller della nostra biblioteca. Devo ora affermare che non mi sono sbagliato: il romanzo è uno dei più avvincenti letti negli ultimi anni. Già dalle prime pagine ci sentiamo proiettati nella conca delle Traversette, sul versante francese del Monviso, al cospetto della grande montagna, tra pascoli e laghetti, tra pareti rocciose e nevai. Subito ci colpisce la figura di Franck il protagonista narrante, un guardiaparco innamorato del suo lavoro e dell’ambiente in cui vive. Un personaggio che subito ti coinvolge: vive in una capanna di legno in quota e passa le giornate ispezionando le sue montagne, attento che erbe e fiori protetti non vengano raccolti, animali non vengano abbattuti, escursionisti non corrano pericoli. E particolari sono i rari personaggi che incontra: la possente pastora spesso ubriaca, la rissosa coppia di rifugisti, il barbuto amico guida alpina. Questa scelta di vita è certo frutto di un passato burrascoso: terribili scenari di guerra e un perduto amore turbano i suoi ricordi; solo la tranquillità della Riserva si addice ad un solitario come lui. E quando la scoperta di un duplice omicidio turba la quiete delle sue montagne, dopo che lui stesso aveva inseguito il presunto assassino in un rocambolesco inseguimento nelle tenebre e tra le rocce, si dedica interamente alla ricerca della verità, conscio che certamente il colpevole è nella cerchia di quei pochi valligiani che lui ben conosce. Giungerà infine ad un confronto con l’omicida, dopo un altro appassionante inseguimento notturno durante l’infuriare della tempesta, su al colle dove tutto era cominciato dodici anni prima e dove tutto si compirà in modo drammatico.

L’autore vive da trenta anni nell’area francese del Monviso dove opera come guida esperta del patrimonio storico-naturalistico. Per questo motivo risulta così precisa ed attenta la descrizione che ne fa dei luoghi e dell’ambiente, dimostrando passione ed amore per la natura e le montagne attraverso le emozioni del suo forestale. Questo è il suo primo romanzo tradotto in Italiano, ma ne ha scritti altri con Franck Verbier come protagonista; è cosa certa che i prossimi non me li lascerò sfuggire.

mercoledì 16 marzo 2022

Due autori da tenere in considerazione

Chi ha partecipato all’ultima serata biblioteca ricorderà che Enrico Camanni ci ha consigliato degli autori da leggere. Li conoscevamo già bene. Infine ci ha nominato Faggiani e Macfarlane. Abbiamo già parlato nel post qui sotto di un libro del primo che ci è piaciuto. Federico ne ha apprezzato anche un altro e ce lo racconta così:
 
Forse non si può catalogare La manutenzione dei sensi, il bel libro di Franco Faggiani nella letteratura di montagna, a dispetto dell’immagine molto accattivante della copertina. La montagna non è proprio la protagonista del libro, o meglio non è l’unica, ma ha un ruolo fondamentale in questo romanzo.  È lo sfondo e il luogo dove si svolgono gli eventi dei due protagonisti.
È la storia di Leonardo Guerrieri, un brillante giornalista-scrittore che si trova però ora a vivere un presente un po’ precario e instabile dovuto alla morte della moglie, e di Martino Rochard, bambino solo, orfano di padre e abbandonato dalla madre. Martino è un bambino solitario, taciturno, che viene dato in affidamento temporaneo a Leonardo. I due vivono a Milano, ma la città si dimostrerà sempre opprimente e lo diventerà in modo ancora maggiore quando a Martino, arrivato alle scuole medie, viene diagnosticata la Sindrome di Asperger.
Leonardo fatica a riprendersi dopo la scomparsa della moglie e si sente sempre più a rischio depressione. Decide allora di realizzare un sogno che aveva condiviso con la moglie: comprare una casa da ristrutturare in montagna, in mezzo a prati d’alta quota e boschi, nelle Alpi piemontesi.
 In questo nuovo ambiente, a contatto con la natura e il silenzio della montagna inizierà una nuova parte della loro vita, Leonardo ritroverà il piacere della scrittura e Martino inizierà ad occuparsi dei lavori della terra e a curarsi degli animali, grazie agli insegnamenti dell’anziano Augusto Bermond, che per lui diventerà una sorta di nonno adottivo dal quale apprendere molto sul come affrontare la vita.
La manutenzione dei sensi è un romanzo molto intenso, che parla della forza dei rapporti non solo tra padre e figlio ma tra le persone in genere.  La famiglia non è solo quella dei legami di sangue, ma anche quella che si crea con persone esterne e apparentemente diverse. È una storia che fa riflettere sul confine, labile, tra normalità e diversità.
È comunque un romanzo per chi ama la montagna, che in questo libro viene ben descritta in tutta la sua bellezza.
 
Non abbiamo mai parlato, invece, di Robert Macfarlane. In biblioteca abbiamo un suo titolo di successo: Come le montagne conquistarono gli uomini (riedito da Einaudi, con il titolo "Montagne della mente").
Le montagne, in realtà, non sono né belle né brutte: sono semplicemente una massa inerte, sono gli uomini che gli attribuiscono un valore. Partendo da questo punto, Macfarlane ripercorre la storia del rapporto tra uomo e montagna nel corso dei secoli: si passa così dal timore e dal senso di mistero all’attrazione estetica e alla passione, al desiderio di conquista. È stupefacente rendersi conto, durante la lettura, di come i sentimenti che oggi proviamo derivino dalle conoscenze acquisite principalmente tra secolo dei Lumi e Romanticismo e dall’elaborazione del pensiero di scienziati, esploratori, letterati, filosofi prima ancora che alpinisti che hanno affrontato la montagna dai loro rispettivi punti di vista. È un racconto decisamente anglocentrico, ma è pur vero che furono i britannici a dare il maggior impulso alle frequentazioni delle Alpi prima e della catena himalayana poi.
Affascinante è il capitolo che traccia l’evoluzione della percezione del paesaggio, fino a raggiungere la consapevolezza, grazie all’affermazione delle scienze geologiche, che le montagne non sono sempre esistite e che non esisteranno più come le conosciamo: è solo l’infinitesima brevità della nostra civiltà a farcele ritenere tali. Ma anche nella dimensione temporale di pochi secoli di storia sono cambiate tante cose, dai ghiacciai, al clima, alla paura provata dall’uomo, alla gestione del rischio. Ciò che sembra perduto è il senso dell’ignoto: l’uomo si è impegnato a riempire tutti gli spazi vuoti che ancora cento anni fa erano numerosi sulle carte geografiche; ora che tutta la Terra è stata esplorata, l’uomo sente di aver perso quel senso di mistero di cui aveva bisogno. Ora l'ignoto resiste soltanto nello spazio cosmico o nelle pieghe profonde della psiche umana. Macfarlane è ricercatore in letteratura a Cambridge e può permettersi queste divagazioni che sconfinano nella filosofia.
 

domenica 6 febbraio 2022

Gente e storie di montagna

Abbiamo due nuovi libri in biblioteca, di natura molto diversa l’uno dall’altro.

Gente di montagna di Franco Faggiani, edito da Mulatero, raccoglie trentacinque storie di persone che hanno deciso di vivere in montagna, con coraggio e determinazione, “inventandosi” un lavoro o rispolverando vecchi mestieri. Tra le pagine del libro non troverete albergatori o ristoratori e nemmeno guide alpine o maestri di sci. Anzi tutt’altro: il libro disegna un ritorno a valli e paesi, lontani dalle rotte turistiche, che hanno vissuto un fenomeno di spopolamento negli ultimi decenni. Faggiani intervista persone che hanno fatto una scelta controcorrente, che sono risaliti dal piano alle terre alte per ricominciare a viverle. Le loro storie non raccontano un desiderio di fuga dalla città verso la montagna ma il progetto di integrarsi nelle comunità locali o anche ricostruirle, se necessario. I protagonisti sono uomini e donne che si dedicano a mestieri legati alla natura, alla ricerca di ritmi, sapori e relazioni umane di altri tempi, ma anche manager che fanno lavori assolutamente contemporanei grazie a una connessione alla rete ormai disponibile anche nelle borgate alpine più remote. La scrittura ha un taglio più giornalistico che narrativo: se da un lato non cattura come un romanzo, dall’altro svela un mondo pieno di curiosità.

L’alibi è, invece, un racconto giallo scritto nel 1939 da Henry Bordeaux, autore francese, riscoperto da Erri De Luca e riproposto dalle edizioni Il Margine. Si può accennare solo vagamente alla trama per evitare di spoilerare, pessimo neologismo che vuol dire rivelare in anticipo la trama di un romanzo. L’io narrante e il suo amico assoldano una guida di Chamonix per salire il Dente del Gigante: l’uomo ha dei comportamenti che lasciano qualche dubbio ma è assolutamente professionale nell’assicurare l’incolumità dei suoi clienti; questi ultimi però saranno costretti a una drammatica resa dei conti con la loro coscienza. Il libro non ha certo le dimensioni del romanzo, tutt’al più quelle di un racconto, ma è impreziosito da una nota introduttiva di Erri De Luca.

 

giovedì 6 gennaio 2022

Guido Rossa, l'alpinista che scese tra gli uomini

La vicenda umana di Guido Rossa si può riassumere così. Cresce a Torino in una famiglia operaia immigrata dal Bellunese, entra in fabbrica a 15 anni, poi in Fiat a Mirafiori. Si dedica all’alpinismo raggiungendo subito livelli di difficoltà estremi. Si trasferisce a Genova dopo il matrimonio ed entra in Italsider come operaio specializzato. Interessato a temi civili e sociali diventa delegato sindacale della Fiom-Cgil. Denuncia l’infiltrazione delle Brigata Rosse in fabbrica e un commando brigatista lo uccide prima dell’alba del 24 gennaio 1979. Ai suoi funerali in piazza partecipano duecentocinquantamila persone, c’è il Presidente Sandro Pertini, ci sono Enrico Berlinguer e Luciano Lama. L’assassinio di Guido Rossa rappresenta un punto di svolta nella lotta contro il terrorismo. I rivoluzionari comunisti hanno ucciso l’operaio comunista: da quel momento le Brigate Rosse perderanno il consenso della classe operaia; nemmeno la zona grigia di equidistanza rappresentata dallo slogan “né con lo Stato, né con le Br” è più praticabile. Comincerà così il declino della parabola brigatista.
Mi dispiace aver sintetizzato così brevemente la vita di Rossa perché ci sarebbero tantissimi aspetti da analizzare più in dettaglio. Ci viene in aiuto un bel libro di Sergio Luzzatto, storico, genovese di nascita e professore a Torino, dal titolo “Giù in mezzo agli uomini – Vita e morte di Guido Rossa” pubblicato recentemente da Einaudi.
Molto si è detto e scritto su questo alpinista e Accademico del CAI, sindacalista e martire del terrorismo. Luzzatto, che per primo ha avuto accesso agli archivi privati di casa Rossa, ricostruisce il quadro di una personalità complessa, coraggiosa e irriverente, attraverso i quarantaquattro anni della sua vita. Il ritratto che ne viene fuori indaga tra le numerose contraddizioni dell’uomo e prova a chiarire il percorso che lo porta dai vertici dell’alpinismo all’impegno civile portato avanti fino alle estreme conseguenze. Il lavoro di Luzzatto sviscera quel momento decisivo in cui Rossa è spinto a una nuova interpretazione del “fare qualcosa”: se aveva vissuto la montagna come una liberazione personale il suo impegno civile era volto a una liberazione collettiva. 
Fu un processo lento e intermittente, tutt’altro che lineare. Molto aveva pesato l’esperienza di una spedizione alpinistica in Nepal dove Rossa era rimasto vivamente colpito dalla «tremenda fame dell’Asia» più che dalle vertiginose pareti ghiacciate. La traccia scritta di questa svolta è la nota lettera inviata all’amico Ottavio Bastrenta, notaio valdostano, in cui Rossa parla dell’«inutilità ultima dell’andar sui sassi». Questo tema sarà ripreso da Gian Piero Motti nel suo articolo “I falliti” pubblicato sulla Rivista del CAI nel settembre 1972 dove scrive: «Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa il quale […] mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini». (entrambi i documenti sono disponibili in biblioteca). Rossa non lasciò comunque mai del tutto la pratica dell’alpinismo e ciò gli permise di frequentare la Genova dell’alta borghesia, tramite le sue amicizie consolidate in montagna. Così Rossa, appassionato fotografo, fu invitato nei salotti buoni a presentare le sue foto di denuncia sociale, non senza qualche stridore. 
Il libro di Luzzatto accompagna la figura di Rossa attraverso la storia d’Italia, dagli anni del fascismo, allo sviluppo industriale del dopoguerra, alle lotte sindacali degli anni ’60 e ’70 ma è l’alpinista-sindacalista a interpretarla con i tratti distintivi del suo carattere, non ultimo il suo coraggio. Si rende conto che il «gusto del rischio era senza scopo e poteva sfociare nell’arditismo fine a se stesso. E ho capito che ci vuole più fegato a essere coerenti tutti i giorni». 
La figura di Rossa è difficile da circoscrivere e il libro di Luzzatto fornisce moltissimi indizi per inquadrarla. Mi piace però concludere come ha fatto Enrico Camanni in un suo scritto: «Ho incontrato molti alpinisti anarchici e sognatori, ma pochissimi hanno saputo dare un corpo ai sogni. Guido l’ha fatto».