C’era
una volta un abete gigantesco, probabilmente l’Abete bianco più maestoso e
imponente d’Europa. Ho cominciato così perché la storia che Marco Albino
Ferrari racconta nel suo ultimo libro, Il Canto del Principe, edito da Ponte
alle Grazie, ha l’incedere di una fiaba. Invece non lo è, è una storia vera.
Questo
albero così imponente si trovava sull’altipiano di Lavarone e fu abbattuto da
una tempesta di vento nel novembre 2017 (non era ancora Vaia). La sua fine fu
causata dall’incuria di alcuni ragazzi che ne intaccarono la corteccia, ma ciò
accadeva diversi decenni fa. Ma si sa, il tempo degli alberi e dei boschi è
molto più dilatato rispetto al tempo degli uomini.
Questo
grande abete tornerà a vivere: dal suo tronco è stato ricavato il legno per
costruire un quartetto d’archi: strumenti molto particolari, sono bianchi e non
rosso-bruni come tutti gli altri. Strumenti però destinati a suonare per secoli
e ricordare il grande abete. Gli alberi conoscono tempi che gli uomini possono
soltanto immaginare.
Attraverso
le pagine del libro, l’autore ci racconta l’importanza simbolica che questo
abete aveva per la comunità locale, risalendo alla colonizzazione
dell’altipiano da parte degli antichi Cimbri e dei loro successori. La storia
ci parla della cura che queste popolazioni avevano e hanno ancora per i loro
boschi e il loro territorio. L’ambiente va preservato non lasciandolo nello
stato selvaggio ma avendone una cura attiva, da parte dell’uomo: questa è la
morale di questa storia.
La
lettura di questo libro mi ha indotto a rileggere qualche pagina di Mario
Rigoni Stern. Nel suo Arboreto salvatico, cita «il bellissimo Avez del
prinzep (Abete del principe) in quel di Lavarone, alla cui ombra amava sostare
Sigmund Freud e che certamente è stato ammirato anche da Robert Musil».
È sempre un piacere avere una scusa per rileggere lo scrittore di Asiago.
Termino
con il commento di Corrado Augias: «La magia di un albero che muore e
risorge, dal fruscio delle foglie al suono di un violino. Un incanto».
E qui mi taccio perché, si sa, ubi maior…
Commento di Melina Biagi:
Ho letto con piacevole interesse questo libro e la famosa frase «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», si addice perfettamente alla conclusione di questo racconto.
I suoni che il vento creava attraverso i rami di un meraviglioso, spettacolare pino bianco, il canto degli uccelli e tutti i rumori del bosco determinati dalla vita che si svolgeva intorno ad esso, rivivono riprodotti, trasformati in dolcissime melodie eseguite da violini costruiti con il legno di quell'albero che sembrava morto, (abbattuto da un furioso temporale). Sembrerebbe una fantastica favola scritta per bambini, ma è una bellissima realtà raccontata con grande sensibilità .
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