Abbiamo due nuovi libri in biblioteca.
Il primo è Il fuoco dell'anima scritto da Andrea Di Bari con Luisa Mandrino, edito nel 2017 da Corbaccio. Questo libro ha entusiasmato Cristiana Casini, bibliotecaria del CAI Firenze, che ha generosamente condiviso con noi le sue impressioni.
Non capita spesso di trovare un libro, cosiddetto “di
montagna”, che abbia dentro così tanto; di solito si leggono, o almeno così è
per me, perché ci interessa la storia, la cronaca, incontrando non di rado
scritti mediocri, ridondanti e presuntuosi.
Confesso
di non averlo comprato subito, forse il titolo così “pretenzioso” mi ha tenuta
distante, poi recentemente un amico mi dice : «Ti porto un libro per la
biblioteca, ne ho due copie, è molto bello, “Il fuoco dell’anima”, ce l’hai
già? L’hai letto?» So di non averlo, il titolo minacciava l’ennesimo “mattone”,
ma decido di fidarmi. «No, non ce l’ho, lo prendo volentieri, grazie!»
Ho cominciato a leggerlo, ritrovando anche personaggi e
luoghi che ho avuto la fortuna di conoscere: Paolo Caruso, Bruno Vitale, le
arrampicate a Gaeta e Sperlonga, le famose mozzarelle di Guido, da mangiare a
morsi col latte che ti cola giù per il mento…
E’ stato come vedere un film, un bel film e quando un libro
di “tira dentro” è sempre così perché dentro c’è la vita, la vita vera, la
passione, la montagna, le amicizie buone e quelle meno buone e anche un bel
pezzo di storia dell’arrampicata, il tutto scritto con leggerezza, ma
disegnando con precisione ogni personaggio.
Ovviamente c’è anche un percorso, quello che porta il Dibba
(simpatico soprannome di Andrea Di Bari) della borgata romana a diventare uno
scalatore famoso, ma senza clamori né celebrazioni, come senza troppo rumore
Andrea è stato lo scopritore di Kalymnos, isola alla quale ha di certo cambiato
la sorte.
Concludo con due frasi del
libro che credo riescano a dare forza a quanto scrivo:
“E
ancora oggi so che se avessi dimenticato da dove venivo tutto il castello
sarebbe crollato. Ma sapevo anche, rispetto a un tempo, che non mollare la
presa non solo ti impediva di precipitare, ma ti portava un poco più in alto”.
In Razzo rosso sul Nanga Parbat, edito da Corbaccio, Reinhold Messner racconta la sua versione della spedizione del 1970 su quella proibitiva cima. Ci furono diversi contrasti all'interno della spedizione e Messner fu accusato di aver fatto di testa sua; raggiunse la cima ma nella discesa, sul versante opposto, perse la vita suo fratello Gunther. Le polemiche sono continuate per anni con toni accesi e i suoi detrattori insinuarono che Messner avesse continuato da solo, pur di arrivare in cima, dopo che il fratello era morto lungo la via di salita. Il ritrovamento della salma, avvenuto anni dopo, nel punto indicato da Messner riaccreditò la veridicità della sua versione. Il libro riporta quindi diverse dichiarazioni di segno opposto ed è corredato da molte belle foto.
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