Ho
fortuitamente recuperato una copia, pubblicata a inizio Novecento, di Tartarin
sulle Alpi, romanzo scritto da Alphonse Daudet nel 1885. Ne ho affrontato la
lettura con un pizzico di curiosità ma anche con una certa perplessità. Devo
invece riconoscere che il libro non cessa di stupire per la sua modernità.
La
seconda metà dell’Ottocento è stata l’epoca d’oro dell’alpinismo romantico
quando esplose l’interesse per le salite più impegnative sulle Alpi da parte
delle classi borghesi ma anche il periodo in cui si affermò il turismo alpino.
Tartarino, è cosa piuttosto nota, è un personaggio di fantasia che millanta
grandi imprese: nel primo volume della trilogia a lui dedicata insegue la
gloria cacciando il leone in Africa; in questo secondo episodio è il presidente
del Club Alpino di Tarascona e affronta le grandi vette alpine. Però Tarascona
è circondata soltanto da dolci colline dove i soci tarasconesi credono di
compiere chissà quali imprese; le Alpi, invece, sono tutt’altra cosa e il
nostro protagonista non è assolutamente preparato ad affrontarle. Ne nasce una
satira ancora molto efficace a distanza di tempo. Vi si possono ritrovare tanti
temi ancora molto attuali: le fanfaronate che si raccontano, le aspre rivalità
all’interno del CAI, le Alpi svizzere descritte come un immenso luna park
confezionato per i cittadini villeggianti. Per dirla con Enrico Camanni: “Il
turismo alpino è una grande, efficacissima fabbrica del falso”.
Insomma, una lettura divertente ma anche raccomandabile per non prendere il CAI troppo sul serio.
Di
tutt’altro tenore è, invece, Tragedie Alpine, di Charles Gos, pubblicato in
Italia da Baldini & Castoldi nel 1957 (l’edizione francese è del 1940).
Sono resoconti di ascensioni, finite appunto in tragedia, nella seconda metà
dell’Ottocento, che vedono protagonisti esponenti della migliore società
inglese e guide locali; i gruppi montuosi teatro di queste avventure, concluse
in modo drammatico, sono i più alti delle Alpi: Monte Bianco, Vallese (Cervino
e Monte Rosa), Oberland Bernese. Il libro è molto ben documentato e riporta
opinioni di persone estremamente qualificate: tanto per dire, l’autore
conosceva personalmente, tra gli altri, Edward Wymper e Guido Rey. Il volume è
corredato da foto in b/n di ottima definizione dove sono indicati con
precisione i punti critici delle ascensioni e dove sono tracciate le linee di
salita.
Al
di là di questi puri tecnicismi, ho trovato la lettura coinvolgente, almeno per
due motivi. Il racconto, sempre avvincente, mette in evidenza quelle minime
fatalità che rappresentano la discriminante tra il successo della salita e la
catastrofe: una specie di sliding doors, dentro o fuori è questione di un attimo.
Certo è che le disgrazie furono numerose, anche in relazione al numero di
alpinisti ben inferiori a quelli di oggi: tant’è che la regina Vittoria provò a
“rendere pubblica la sua disapprovazione circa le pericolose escursioni alpine”
ma ovviamente non fermò certo la corsa alle cime.
L’altro lato della medaglia è rappresentato dal punto
di vista di guide e portatori. Erano sempre valligiani per cui il mestiere
rappresentava una notevole fonte di guadagno: erano quindi spinti ad accettare
il rischio pur di rendere più agevole la vita delle rispettive famiglie. Il
libro cita casi in cui persero la vita dei fratelli oppure padre guida e figlio
portatore. Il lutto che si abbatteva sulla loro casa rappresentava spesso anche una rovina per l'economia della famiglia.
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