martedì 17 settembre 2024

Sguardi antitetici sull'alpinismo di fine Ottocento

Ho fortuitamente recuperato una copia, pubblicata a inizio Novecento, di Tartarin sulle Alpi, romanzo scritto da Alphonse Daudet nel 1885. Ne ho affrontato la lettura con un pizzico di curiosità ma anche con una certa perplessità. Devo invece riconoscere che il libro non cessa di stupire per la sua modernità. 
La seconda metà dell’Ottocento è stata l’epoca d’oro dell’alpinismo romantico quando esplose l’interesse per le salite più impegnative sulle Alpi da parte delle classi borghesi ma anche il periodo in cui si affermò il turismo alpino. Tartarino, è cosa piuttosto nota, è un personaggio di fantasia che millanta grandi imprese: nel primo volume della trilogia a lui dedicata insegue la gloria cacciando il leone in Africa; in questo secondo episodio è il presidente del Club Alpino di Tarascona e affronta le grandi vette alpine. Però Tarascona è circondata soltanto da dolci colline dove i soci tarasconesi credono di compiere chissà quali imprese; le Alpi, invece, sono tutt’altra cosa e il nostro protagonista non è assolutamente preparato ad affrontarle. Ne nasce una satira ancora molto efficace a distanza di tempo. Vi si possono ritrovare tanti temi ancora molto attuali: le fanfaronate che si raccontano, le aspre rivalità all’interno del CAI, le Alpi svizzere descritte come un immenso luna park confezionato per i cittadini villeggianti. Per dirla con Enrico Camanni: “Il turismo alpino è una grande, efficacissima fabbrica del falso”.
Insomma, una lettura divertente ma anche raccomandabile per non prendere il CAI troppo sul serio.

Di tutt’altro tenore è, invece, Tragedie Alpine, di Charles Gos, pubblicato in Italia da Baldini & Castoldi nel 1957 (l’edizione francese è del 1940). Sono resoconti di ascensioni, finite appunto in tragedia, nella seconda metà dell’Ottocento, che vedono protagonisti esponenti della migliore società inglese e guide locali; i gruppi montuosi teatro di queste avventure, concluse in modo drammatico, sono i più alti delle Alpi: Monte Bianco, Vallese (Cervino e Monte Rosa), Oberland Bernese. Il libro è molto ben documentato e riporta opinioni di persone estremamente qualificate: tanto per dire, l’autore conosceva personalmente, tra gli altri, Edward Wymper e Guido Rey. Il volume è corredato da foto in b/n di ottima definizione dove sono indicati con precisione i punti critici delle ascensioni e dove sono tracciate le linee di salita.
Al di là di questi puri tecnicismi, ho trovato la lettura coinvolgente, almeno per due motivi. Il racconto, sempre avvincente, mette in evidenza quelle minime fatalità che rappresentano la discriminante tra il successo della salita e la catastrofe: una specie di sliding doors, dentro o fuori è questione di un attimo. Certo è che le disgrazie furono numerose, anche in relazione al numero di alpinisti ben inferiori a quelli di oggi: tant’è che la regina Vittoria provò a “rendere pubblica la sua disapprovazione circa le pericolose escursioni alpine” ma ovviamente non fermò certo la corsa alle cime.
L’altro lato della medaglia è rappresentato dal punto di vista di guide e portatori. Erano sempre valligiani per cui il mestiere rappresentava una notevole fonte di guadagno: erano quindi spinti ad accettare il rischio pur di rendere più agevole la vita delle rispettive famiglie. Il libro cita casi in cui persero la vita dei fratelli oppure padre guida e figlio portatore. Il lutto che si abbatteva sulla loro casa rappresentava spesso anche una rovina per l'economia della famiglia.

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