Sono
fiero di aver conosciuto Daniele Nardi, primo alpinista del centro-sud ad aver
scalato ben 5 Ottomila, scomparso nel Febbraio 2019, sul Nanga Parbat, nel
tentativo di aprire la prima salita invernale lungo lo sperone Mummery, “la via
perfetta”. Qualche anno fa’, era il 2004, al ritorno dalla sua scalata
dell’Everest fu organizzata una festa in suo onore presso un agriturismo di
Sezze, il suo paese, ed ebbi modo di parteciparvi insieme ad altri amici soci
CAI di Frosinone. Lì conobbi Daniele, ragazzo semplice e simpatico. Rimasi
colpito dal suo entusiasmo che dimostrava per la montagna in genere, ma
soprattutto dalla sua voglia di ripetere imprese alpinistiche sulle grandi
vette dell’India e del Pakistan, lui che aveva cominciato dal Semprevisa, la
cima dei Lepini che ben conosciamo. Pensai allora che sarebbe diventato un
grande alpinista, come in realtà è accaduto. Ma come spesso succede nella vita
dei grandi una tragica fatalità ha posto fine alla sua storia. Come si è
sviluppata la parabola della sua avventura ce lo racconta lui stesso in questo
libro, che però non ha potuto completare di sua mano.
“Se non dovessi tornare scrivi la mia storia.” mi aveva detto lassù. Un mandato in cui sono rimasta
invischiata come lui nello sperone Mummery.
Alessandra
Carati ha mantenuto fede alla promessa fatta a Daniele portando a
termine questo meraviglioso libro di montagna, da lui iniziato, che ci fa
conoscere e comprendere le motivazioni di questo alpinista quasi nostro
conterraneo. Questa lettura non ci
racconta semplicemente il suo sogno, ma soprattutto permette di scoprire la
figura dell’alpinista e dell’uomo in maniera straordinaria e sconvolgente, di
capire quali possano essere le motivazioni che l’hanno portato a rischiare
ripetutamente la vita.
La vita
di Daniele e il suo alpinismo appaiono incentrati sulla sua ambizione di
compiere una grande impresa, che appare come un'ossessione. Le sue imprese, ad iniziare
dalle prime esperienze sul Gran Sasso e sulle Alpi, passando attraverso le
scalate dell’Everest, del K2, del Baghirathi III con Roberto Dalle Monache che
gli valse il prestigioso Premio Consiglio, convergono verso la "via
perfetta" che sembra rappresentare per lui il coronamento delle sue
ambizioni, il risolversi definitivamente
come alpinista e, forse, come uomo. E’ costante nel racconto il suo desiderio
di affermarsi nel difficile mondo dell’alpinismo che troppo spesso voleva
sottovalutarlo in quanto proveniente da ambiente non alpino.
Un
libro coinvolgente dalla prima pagina all'ultima. Tra l’altro vengono messi in
luce diversi aspetti delle spedizioni d'alta quota, dove spesso i fattori
economici hanno un notevole peso, al pari delle ambizioni personali, che
portano a situazioni di conflitto con amici e colleghi della stessa spedizione
o di spedizioni diverse ma comunque impegnate nella stessa impresa.
Emozionante
il racconto dei vari tentativi di scalare lo sperone: mille metri di roccia e
ghiaccio a 6000 metri, nelle terrificanti condizioni invernali di una montagna
micidiale, con i campi intermedi sotto il tiro continuo delle slavine e dei
seracchi. La sensazione è che il rischio fosse ponderato e che la via fosse
possibile. Ma in una notte di gelo micidiale la grande montagna non glielo ha
permesso. Resta il rimpianto per l'uomo, il marito, il padre, il ragazzo che
forse avrebbe dovuto nascere altrove, per non portarsi dentro il peso di dover
sempre dimostrare qualcosa in più. E non è giusto ora pensare che non si possa
passare dal Semprevisa al Nanga, perché
“Un alpinista è un esploratore, non resiste a
una via di cui si è innamorato, non può sottrarsi al desiderio di tentarla.
Perché la visione iniziale è diventata un’idea, e l’idea un progetto a cui
pensa tutti i giorni e a cui dedica le sue energie migliori”.
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