La vicenda umana di Guido Rossa si può riassumere così.
Cresce a Torino in una famiglia operaia immigrata dal Bellunese, entra in
fabbrica a 15 anni, poi in Fiat a Mirafiori. Si dedica all’alpinismo
raggiungendo subito livelli di difficoltà estremi. Si trasferisce a Genova dopo
il matrimonio ed entra in Italsider come operaio specializzato. Interessato a
temi civili e sociali diventa delegato sindacale della Fiom-Cgil. Denuncia
l’infiltrazione delle Brigata Rosse in fabbrica e un commando brigatista lo uccide
prima dell’alba del 24 gennaio 1979. Ai suoi funerali in piazza partecipano
duecentocinquantamila persone, c’è il Presidente Sandro Pertini, ci sono Enrico
Berlinguer e Luciano Lama. L’assassinio di Guido Rossa rappresenta un punto di svolta
nella lotta contro il terrorismo. I rivoluzionari comunisti hanno ucciso
l’operaio comunista: da quel momento le Brigate Rosse perderanno il consenso
della classe operaia; nemmeno la zona grigia di equidistanza rappresentata dallo
slogan “né con lo Stato, né con le Br” è più praticabile. Comincerà così il
declino della parabola brigatista.
Mi dispiace aver
sintetizzato così brevemente la vita di Rossa perché ci sarebbero tantissimi
aspetti da analizzare più in dettaglio. Ci viene in aiuto un bel libro di Sergio Luzzatto, storico, genovese di
nascita e professore a Torino, dal titolo “Giù
in mezzo agli uomini – Vita e morte di Guido Rossa” pubblicato recentemente
da Einaudi.
Molto si è detto e
scritto su questo alpinista e Accademico del CAI, sindacalista e martire del terrorismo.
Luzzatto, che per primo ha avuto accesso agli archivi privati di casa Rossa,
ricostruisce il quadro di una personalità complessa, coraggiosa e irriverente,
attraverso i quarantaquattro anni della sua vita. Il ritratto che ne viene
fuori indaga tra le numerose contraddizioni dell’uomo e prova a chiarire il
percorso che lo porta dai vertici dell’alpinismo all’impegno civile portato
avanti fino alle estreme conseguenze. Il lavoro di Luzzatto sviscera quel
momento decisivo in cui Rossa è spinto a una nuova interpretazione del “fare
qualcosa”: se aveva vissuto la montagna come una liberazione personale il suo
impegno civile era volto a una liberazione collettiva.
Fu un processo lento e
intermittente, tutt’altro che lineare. Molto aveva pesato l’esperienza di una
spedizione alpinistica in Nepal dove Rossa era rimasto vivamente colpito dalla
«tremenda fame dell’Asia» più che dalle vertiginose pareti ghiacciate. La
traccia scritta di questa svolta è la nota lettera inviata all’amico Ottavio
Bastrenta, notaio valdostano, in cui Rossa parla dell’«inutilità ultima
dell’andar sui sassi». Questo tema sarà ripreso da Gian Piero Motti nel suo
articolo “I falliti” pubblicato sulla Rivista del CAI nel settembre 1972 dove
scrive: «Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa il quale […] mi dirà che
l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna
invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a
noi stessi ma anche agli altri uomini». (entrambi i documenti sono disponibili
in biblioteca). Rossa non lasciò comunque mai del tutto la pratica
dell’alpinismo e ciò gli permise di frequentare la Genova dell’alta borghesia,
tramite le sue amicizie consolidate in montagna. Così Rossa, appassionato
fotografo, fu invitato nei salotti buoni a presentare le sue foto di denuncia
sociale, non senza qualche stridore.
Il libro di Luzzatto
accompagna la figura di Rossa attraverso la storia d’Italia, dagli anni del
fascismo, allo sviluppo industriale del dopoguerra, alle lotte sindacali degli
anni ’60 e ’70 ma è l’alpinista-sindacalista a interpretarla con i tratti
distintivi del suo carattere, non ultimo il suo coraggio. Si rende conto che il
«gusto del rischio era senza scopo e poteva sfociare nell’arditismo fine a se
stesso. E ho capito che ci vuole più fegato a essere coerenti tutti i giorni».
La figura di Rossa è
difficile da circoscrivere e il libro di Luzzatto fornisce moltissimi indizi
per inquadrarla. Mi piace però concludere come ha fatto Enrico Camanni in un suo
scritto: «Ho incontrato molti alpinisti anarchici e sognatori, ma pochissimi
hanno saputo dare un corpo ai sogni. Guido l’ha fatto».